28 maggio 2001 — La Repubblica
PALERMO – Monumentale capolavoro quasi ignorato dalla scena nei secoli, il Candelaio di Giordano Bruno ha trovato una cornice ideale e fatiscente nel recuperato Teatro Bellini di Palermo, andato a fuoco quasi quarant’ anni fa, dopo uno spettacolo brechtiano di Besson e Parenti: tra i muri di cemento grezzo, con le tre file superiori ancora inagibili e le due di sotto assiepate dai 99 spettatori, ecco presentarsi una serie di scale metalliche sul palco, mentre la vera scena, trasferita in platea, è impacchettata alla Christo in un enorme foglio di carta. Sfilandolo con leggerezza dopo i prologhi, si rivelerà via via lo sterminato testo, praticamente ricostruito da Luca Ronconi, che già l’ aveva montato come un seguito di soliloqui, tra inesorabili tagli, alla Biennale di Venezia nel 1968. La nuova edizione, coprodotta dal Piccolo Teatro di Milano e dal Biondo di Palermo, comincia di pomeriggio e dura 5 ore piene più un solo intervallo di 90 minuti per la cena. Uno spazio dilatato per ritrovare nel gran “pasticciaccio” realistico e metaforico di Giordano Bruno, difficile alla lettura ma di poderosa teatralità, un suo ordine non senza sfoltimenti in quel caos di ardue lingue, retoriche o crude, di trame incrociate, di personaggi bizzarri, convergenti in una sorta di parodia della commedia classica che in verità disegna un mondo in transito dal vecchio al nuovo, in via di aprirsi al volgare. Parlano infatti un italiano fiorito di svarianti impasti dialettali i giovani che si beffano dell’ alienazione di tre simulacri della società cadente, teatralmente presentati su alti coturni in antiquate fogge femminili della nostra epoca, come tutti costumi contaminati e allusivi di una serata dove il travestimento dilaga, assieme al perdersi delle identità. Il “candelaio” del titolo, ovvero l’ omosessuale, un sinuoso e superbo Massimo De Francovich con intonazioni simili a quelle di Sergio Fantoni nella prima edizione, spasima petrarcheggiando per una prostituta; lo scienziato avaro del maturo intensissimo Giovanni Crippa impazzisce per fabbricare alchemicamente l’ oro; il maestro del caricaturale Massimo Popolizio, tragicamente buffonesco, adora il latino ciceroniano e lo blatera fino a divenire incomprensibile, completando un trio di monomaniaci specchi delle deviazioni istituzionali. Ma attorno a loro c’ è un brulicare di vita nella scena ideata dal regista, ampia distesa orizzontale un po’ alla Burri di lignee porte accatastate ma in grado di rizzarsi in piedi, a diversi livelli come la struttura del babelico testo, apribili a sorpresa inghiottendo o rigettando persone, immagine sintetica di un’ aggrovigliata Napoli, dove tutti si spiano. E il folle trio, perso nei suoi squallidi intrighi, è preso di mira da una beffa di ragazzi di vita che, come teppistelli, si travestono da poliziotti per farsi poi strumenti esecutivi di una punizione per lesa umanità in un dibattito sempre attuale tra giustizia e misericordia. Le vittime usciranno umiliate e fustigate con una durezza che nello spettacolo diventa crudele, anche se alla fine sarà il latinista che perde le mutande a chiedere al pubblico il “plaudite”, costretto a ricordarsi di essere in un teatro. Ma c’ è anche un pittore chiamato GioBernardo che conduce la trama verso la vittoria della natura sull’ artificio. In lui Ronconi vede un ritratto dell’ autore, del quale condivide le iniziali; e in effetti, dopo avergli affidato il primo dei tre prologhi, uno sberleffo che il bravo Luciano Roman dice nudo, masturbandosi, sulla scena ancora coperta, gli fa sorvegliare l’ andamento dell’ azione, da un angolo, incappucciato in un saio nero come il Duca di Misura per misura, a controllare quei tre folli quasi vi riconoscesse altrettante immagini di sue segrete perversioni, prima di appartarsi con la moglie del primo di loro, imponendo al Candelaio un ménage a trois definito con termini trinitari (“tre in uno”). Aderendo pienamente allo spirito dell’ opera, il regista ci dà il suo spettacolo più gioiosamente sensuale su tutti i versanti, omo in primis, e una prova magistrale, sanamente antirealistica, alla quale nuoce soltanto il partito preso analitico di rallentamento, soprattutto in certe ripetitività della prima parte. È anche una superlativa esibizione di attori, impegnati in grosse parti. Oltre ai già nominati vanno almeno ricordate le figure femminili sapidamente incarnate da Galatea Ranzi, Laura Marinoni, Manuela Mandracchia e Anna Gualdo, e tra i popolani pieni di energia Riccardo Bini, in gran forma, che li guida con lo scaltro Francesco Colella e i giovanissimi Raffaele Esposito, Francesco Vitale, Simone Toni, capintesta dei preparatissimi allievi della scuola del Piccolo. Musiche specialmente corali ripescate da Paolo Terni. Gran consenso alla fine della kermesse da un pubblico penalizzato ahimé dalle sadiche sedie thonet. – FRANCO QUADRI