Oscar Wilde, il clown dal cuore infranto
di Angela Villa (www.dramma.it, 2 Aprile 2012)
Un uomo chiuso in cella dorme, riflette, scrive una lettera. E’ Oscar Wilde. Sulla pedana della scena s’intravedono alcune parole sono tratte da il De Profundis. Lo scritto indirizzato a Bosie, giovane amico di Wilde, risale ai primi mesi del 1897, anno in cui l’autore si trova nella prigione di Reading, per scontare una pena di due anni ai lavori forzati, per il reato di sodomia. Durante le interminabili ore in carcere, egli scrive per non impazzire, per tenere acceso l’amore. Il fine della lettera è essenzialmente pedagogico. Wilde intende svegliare la coscienza del giovane, atrofizzata da una totale mancanza d’immaginazione (è incapace di prevedere le conseguenze dei propri atti) e annebbiata dall’odio. Il giovane sacrificò e usò, la vita di chi lo aveva accolto e amato per vendicarsi del padre. Una luce bianca taglia la scena ed inizia il flash back, Wilde ricorda i momenti del processo, la scenografia si trasforma ed ecco apparire un giudice e quattro fantocci: simboli della morale borghese dell’epoca. La realtà di una cosa dipende dal modo in cui viene guardata e gli occhi della regia si concentrano sui pregiudizi della società inglese dell’epoca, sulla superficialità del giovane incapace di amare realmente e incapace di cercare in sé e negli altri la bellezza. Il processo diventa anche un modo significativo per riflettere sulla letteratura: può la letteratura essere immorale? Se stimola l’intelletto non è mai immorale, così risponde lo scrittore dal banco degli imputati. Ma ogni parola che egli pronuncerà, traccerà un abisso profondo fra la sua arte e il mondo. Dopo questa tragica esperienza non riuscirà più a scrivere, a prendere la vita sorridendo come faceva un tempo. Una donna nel ruolo di un giudice provocante, con tacchi a spillo e rosso acceso sulle labbra, lo condanna senza riserve e dipinge sul suo volto la maschera di clown. Rappresenta la moglie che gli impedì di vedere i figli aggiungendo altro dolore a quello della condanna. Wilde avrebbe potuto evitare il processo ma non lo fece: restare era più nobile e più bello e più vicino a quell’idea di bellezza che aveva inseguito tutta una vita. Tuttavia la sua idea di bello non coincideva con quella della società inglese, una società che tollerava l’omosessualità purché non ostentata e che la punì severamente per dar prova della propria virtù. Il regista con grande sensibilità e intelligenza affronta un tema ancora oggi difficile, il rapporto tra trasgressione, legge e società. Fausto Cabra è un commovente Wilde espressivo e funzionale, accanto al protagonista, valida la recitazione e l’energia di Andrea Luini e Stefano Moretti, rispettivamente nei panni di Bosie e dell’amico più fidato dello scrittore. Federica Castellini è spietata e convincente nel ruolo del giudice/moglie. Ancora qualche giorno per applaudire questo cast affiatato, ne vale la pena. Ancora qualche giorno per vedere in scena questo Clown dal cuore infranto e provare compassione per la sua vita, perché una vita senza compassione, condivisione, senza empatia, non è una “bella” vita.